Per vedere una città non basta tenere gli occhi aperti.
Occorre per prima cosa scartare tutto ciò che impedisce di vederla, tutte le idee ricevute, le immagini precostituite che continuano ingombrare il campo visivo e la capacità di comprendere. Poi occorre saper semplificare, ridurre all’essenziale l’enorme numero d’elementi che a ogni secondo la città mette sotto gli occhi di chi la guarda, e collegare i frammenti sparsi in un disegno analitico e insieme unitario, come il diagramma d’una macchina dal quale si possa capire come funziona.
Il paragone della città con la macchina è nello stesso tempo pertinente e fuorviante.
Pertinente perché una città vive in quanto funziona, cioè serve a viverci e a far vivere.
Fuorviante perché a differenza delle macchine che sono create in vista di una determinata funzione,
le città sono tutte o quasi il risultato d’adattamenti successivi a funzioni diverse,
non previste dal loro impianto precedente.(Penso alle città italiane, con la loro storia di secoli o di millenni).
Più che quello con la macchina, è il paragone con l’organismo vivente nell’evoluzione della specie, che può dirci qualcosa d’importante sulla città: come nel passare da un’era all’altra le specie viventi adattano i loro organi a nuove funzioni o scompaiono, così le città. E non bisogna dimenticare che nella storia dell’evoluzione ogni specie si porta dietro caratteri che sembrano relitti di altre ere in quanto non corrispondono più a necessità vitali, ma che magari un giorno, in mutate condizioni ambientali, saranno quelli che salveranno la specie dall’estinzione. Così la forza della continuità d’una città può consistete in caratteri ed elementi che oggi sembrano prescindibili perché dimenticati o contraddetti dal suo funzionamento odierno.
Lento e rapido che sia, ogni movimento in atto nella società deforma e riadatta - o degrada irreparabilmente – il tessuto urbano, la sua topografia, la sua sociologia, la sua cultura istituzionale e la sua cultura di massa ( diciamo: la sua antropologia). Crediamo di continuare a guardare la stessa città, e ne abbiamo davanti un’altra,ancora inedita, ancora da definire, per la quale valgono “istruzioni per l’uso” diverse e contraddittorie, eppure applicate, coscientemente o meno, da gruppi sociali di centinaia di migliaia di persone.
Le trasformazioni degli agglomerati urbani a seguito della rivoluzione industriale, nell’Inghilterra della prima metà dell’Ottocento, furono incontrollate e catastrofiche, e condizionarono la vita di milioni e milioni di persone; ma dovevano passare decenni prima che gli inglesi si rendessero conto esattamente di cosa stava succedendo .Dickens, che fu forse il primo a sentire il clima di quest’epoca negli aspetti spettrali di Londra e nei contraccolpi sui destini individuali, non registra mai immagini che si riferiscano direttamente alla condizione operaia. Neanche quando deve descrivere una sua visita a Manchester, dove i quartieri operai e il lavoro nelle fabbriche tessili offrono il quadro più drammatico, riesce a dire quello che ha visto, come se una censura interna l’avesse cancellato dalla sua mente.
Poco dopo è Carlyle a visitare Manchester: la sensazione che gli resta più impressa e che ritornerà più volte nella sua opera, dapprima con accenti di angoscia,e poi d’esaltazione,è l’improvviso fragore che lo risveglia all’alba,e di cui lì per lì non comprende l’origine: le migliaia di telai che vengono messi in moto tutt’insieme.
Bisognerà attendere che un giovane tedesco, figlio del proprietario d’una di quelle fabbriche tessili, scriva un saggio famoso, perché Manchester, quella Manchester, diventi il modello più tipico e più negativo di una città industriale.
Perché solo lui, Friedrich Engels, riunisce in sé parecchie condizioni che gli altri non avevano:
uno sguardo che proviene dall’esterno (in quanto straniero) ma anche dall’interno (in quanto appartiene al mondo dei padroni), un’attenzione al “negativo” propria della filosofia di Hegel in cui s’è formato, una determinazione critica e demistificatoria cui lo porta l’orientamento socialista.
Sto riassumendo il libro recente di uno studioso americano (Steven Marcus, Engles, Manchester e la classe lavoratrice, 1974) che ricostruisce come il giovane Engles riesca nel suo primo libro a vedere e a descrivere quello che gli altri avevano sotto gli occhi ma cancellavano dalla loro menti.
L’intento di Steven Marcus – un critico letterario che applica con intelligenza la sua indagine a testi extraletterari -, è quello di rintracciare la genesi di un’immagine insieme visuale e concettuale, che appena viene espressa appare subito evidente e incontrovertibile, ma che è il risultato d’un processo conoscitivo non così ovvio e “naturale” come sembra.
L’esempio di Manchester studiato da Marcus mi serve come illustrazione retrospettiva dell’idea che stavo cercando di mettere a fuoco riferendomi all’oggi. Penso alle tante città italiane che in questi mesi sembra stiano tornando a guardarsi in faccia, dopo anni attraversati come alla cieca. Nuove amministrazioni succedono al malgoverno durato decenni interi:un lungo periodo che ha visto l’urbanizzazione di masse enormi, senza alcun piano che prevedesse il loro inserimento, un’epoca in cui la forza degli interessi particolari palesi o nascosti ha corroso ogni progetto di sviluppo sensato. E’ con occhi nuovi che oggi ci si pone a guardare la città, dove composizione sociale, densità di abitanti per metro quadrato costruito, dialetti, morale pubblica e familiare, divertimenti, stratificazioni del mercato,modi di ingegnarsi a sopperire e alle deficienze dei servizi, di morire o sopravvivere negli ospedali, di imparare nelle scuole o nella strada, sono elementi che si compongono in una mappa intricata e fluida, difficile a ricondurre all’essenzialità d’uno schema. Ma è di qui che bisogna partire per capire - primo - come la città è fatta, e – secondo - come la si può rifare.
Infatti, la chiaroveggenza critica della negatività d’un processo ormai avanzato non può oggi bastarci: questo tessuto con le sue parti vitali (anche si solo d’una vitalità biologica e non razionale) e con le sue parti disgregate o cancerose è il materiale da cui la città di domani prenderà forma, in bene o in male, secondo il nostro intento se avremo saputo vedere e intervenire oggi, o contro di esso nel caso contrario.
Tanto più l’immagine che trarremo dall’oggi sarà negativa, tanto più occorrerà proiettarci una possibile immagine positiva versi la quale tendere.
Detto questo, sottolineata cioè la necessità di tener conto di come città diverse si succedono e si sovrappongono sotto uno stesso nome di città , occorre non perdere di vista quale è stato l’elemento di continuità che la città ha perpetuato lungo tutta la sua storia, quello che l’ ha distinta dalle altre città e le ha dato un senso. Ogni città ha un suo ”programma” implicito che deve saper ritrovare ogni volta che lo perde di vista, pena l’estinzione. Gli antichi rappresentavano lo spirito della città, con quel tanto di vaghezza e quel tanto di precisione che l’operazione comporta, evocando i nomi degli dei che avevano presieduto alla sua fondazione: nomi che equivalevano a personificazioni d’attitudini vitali del comportamento umano e dovevano garantire la vocazione profonda della città, oppure personificazioni d’elementi ambientali, un corso d’acqua, una struttura del suolo, un tipo di vegetazione, che dovevano garantire della sua persistenza come immagine attraverso tutte le trasformazioni successive , come forma estetica ma anche come emblema di società ideale. Una città può passare attraverso catastrofi e medioevi, vedere stirpi diverse succedersi nelle sue case, veder cambiare le sue case pietra per pietra, ma deve, al momento giusto, sotto forme diverse, ritrovare i suoi dei.